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Lettera ad Oriana

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  • misterx78
    00 16/09/2008 02:01



    Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006)
    Memorial Oriana Fallaci

    Firenze, 11 settembre 2008 - Il 15 settembre, due anni dopo(come l’anno scorso) la morte della giornalista fiorentina, si tiene in città il Memorial Oriana Fallaci, organizzato dal 'Comitato una via per Oriana Fallaci'. La commemorazione si aprirà, nel pomeriggio, con un omaggio al cimitero evangelico degli Allori, dove è sepolta la Fallaci.


    Spett. Oriana…
    Volevo scriverti questa lettera in occasione del tuo memorial. Vorrei parlarti di quanto ammiro il tuo stile, la tua grandezza. Vorrei parlarti e ricordare insieme quante cose hai fatto ma…
    Cosa posso dire io di te, Oriana Fallaci? Uno di quelli che ti definirebbe scrittrice e giornalista? Quanto volevi essere considerata solo come una scrittrice? Posso solo perdermi tra gli spazi vuoti tra una lettera e l’altra, soffermandomi, nei tuoi scritti, sulla forza e sulla rabbia di un’Italiana che, passando dall’illusione delle ideologie comuniste, trasmesse dal padre, provava già nel Vietnam, sulla sua pelle, la realtà delle cose e le motivazioni dell’America, per avvicinarsi sempre di più verso la Libertà. Con quel caschetto in testa a giocare a prendere appunti…
    Conosci il mondo arabo e ne subisci gli orrori. Hai il coraggio di urlare in faccia all’emiro che non sei d’accordo con lui, rischiando il filo della spada. Sei pazza, Oriana?
    Comprendi il tuo spirito di madre con un corpo inadatto per un bambino per poi partorire le sue creature in forma di libri. Sei dolce, Oriana?
    Quanto mi somigli quando dici: ‘sono severa con gli altri ma ancora di più con me stessa’. Quanto nazionalismo sento costretto tra quelle catene alle porte di Firenze che ti laceravano l’anima perché non voleva lasciare in pasto ai soliti comunisti che spaccano tutto. La mia città. La mia città. La mia città. Quante volte ho urlato questo dentro di me quando guardavo la nostra bandiera. La mia città è l’Italia. Siamo italiani. E tu lo eri meglio di tutti noi.
    Quanto dolore vedere una Guzzanti sputare parole acide deridendoti per il male che fagocitava il tuo spirito.
    Correre verso la Libertà e combattere tutto ciò che freni quella corsa. Persino il Cristo diventava degno di lode, tu, che come me, non ci credeva ma che mille volte preferisci un Papa a un Imam. La nostra tradizione, la nostra storia. Non un eurabia che non ci appartiene. Noi siamo italiani, Oriana! Sempre di più appartenenti a quest’Italia che si lascia conquistare ed invadere da una jahad chiamata democrazia.
    Eh, lo so! Tu non è che non li sopportavi gli arabi, in quanto musulmani. Li odiavi proprio. Ma non ne avevi paura. Quando dicevi che se pur non è vero che tutti i musulmani sono terroristi è pur vero che tutti i terroristi sono musulmani…
    La bandiera tricolore che sventolava sempre fuori da quella finestra di casa tua dove inconsapevoli fortunati avranno sentito il ticchettio di tasti meccanici su una vecchia macchina da scrivere . La solitudine, la rabbia per un mondo inquinato dal buonismo. L’essere schiva e abbandonarsi a sé stessa.
    Quanto avrei voluto poterti conoscere Oriana. Sì, i tuoi libri, li amo tutti e ti comprendo. E sei e sarai sempre tra le mie scrittrici preferite. Ma quanto avrei voluto conoscerti dal vivo. Io, che non sono nessuno, che mi avresti liquidato anche se accompagnato da qualcuno che ti conosceva meglio di me… ma non mi sarebbe importato se ti saresti irritata. Se mi avessi parlato di quel Cristo a cui io e te non crediamo ma che continuiamo a cercare in quanto simbolo della Libertà. Un uomo pronto a farsi mettere in croce pur di non piegarsi. Un uomo pronto a mettersi in croce per la sua follia d’amore.
    Vietato vietare Oriana. Vietato stare in silenzio. Urlare a tutti il proprio pensiero perché non c’è arma più forte dell’orgoglio. Non c’è dignità più grande della rabbia. Non c’è privilegio più grande che morire per la propria bandiera.
    Un giorno passerò a salutarti su quella lapide silente ma fumante di forza.
    Io… io quello che: che cosa posso dire di Oriana Fallaci…
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    Agny81
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    00 16/09/2008 18:12
    wooooow!!!!!

    l'hai scritta tu??? complimenti!!
    non ho parole davvero... [SM=x1460496]
    oriana è morta e ormai nessuno se nè ricorda più...
    se solo ripenso a quell'oca della guzzanti quando prendeva in giro il suo tumore....cose dell'altro mondo [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458]
  • misterx78
    00 16/09/2008 18:28
    Mi manca davvero... quando sfioro con le dita le frasi che ha scritto e ho appena letto su un suo qualche libro... e sulle quali non posso fare altro che dirle grazie.

    Avrei voluto conoscerla con tutto me stesso.




    [Modificato da misterx78 16/09/2008 18:29]
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    Agny81
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    00 16/09/2008 18:41
    il libro che è in tutte le edicole adesso (non capisco come sia potuto uscire se lei non c'è più [SM=x1460430] ), l'hai letto? com'è, di cosa parla??
  • misterx78
    00 16/09/2008 18:52
    eccone un'estratto.. è un libro pubblicato postumo... un libro nel cassetto, si intitola: un cappello pieno di ciliegie




    Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io. Naturalmente sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio. Espediente mai capito e mai accettato. Però non meno bene sapevo che le altre si nascondevano nella memoria di quel passato, negli eventi e nelle creature che avevano accompagnato il ciclo della formazione, e in un ossessivo viaggio all’indietro lo disotterravo: riesumavo i suoni e le immagini della mia prima adolescenza, della mia infanzia, del mio ingresso nel mondo. Una prima adolescenza di cui ricordavo tutto: la guerra, la paura, la fame, lo strazio, l’orgoglio di combattere il nemico a fianco degli adulti, e le ferite inguaribili che n’erano derivate. Un’infanzia di cui ricordavo molto: i silenzi, gli eccessi di disciplina, le privazioni, le peripezie d’una famiglia indomabile e impegnata nella lotta al tiranno, quindi l’assenza d’allegria e la mancanza di spensieratezza. Un ingresso nel mondo del quale mi sembrava di ricordare ogni dettaglio: la luce abbagliante che di colpo si sostituiva al buio, la fatica di respirare nell’aria, la sorpresa di non star più sola nel mio sacco d’acqua e condivider lo spazio con una folla sconosciuta. Nonché la significativa avventura di venir battezzata ai piedi d’un affresco dove, con uno spasmo di dolore sul volto e una foglia di fico sul ventre, un uomo nudo e una donna nuda lasciavano un bel giardino pieno di mele: la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio per la Chiesa del Carmine a Firenze. Riesumavo in ugual modo i suoni e le immagini dei miei genitori, da anni sepolti sotto un’aiola profumata di rose. Li incontravo ovunque. Non da vecchi cioè quando li consideravo più figli che genitori, sicché a sollevare mio padre per posarlo su una poltrona e a sentirlo così lieve e rimpicciolito e indifeso, a guardarne la testolina tenera e calva che si appoggiava fiduciosamente al mio collo, mi pareva di tenere in braccio il mio bambino ottuagenario. Da giovani. Quando eran loro a sollevarmi e a tenermi in braccio. Forti, belli, spavaldi. E per qualche tempo credetti d’avere in pugno una chiave che apriva qualsiasi porta. Ma poi m’accorsi che ne apriva alcune e basta: né il ricordo della prima adolescenza e dell’infanzia e dell’ingresso nel mondo né gli incontri coi due giovani forti e belli e spavaldi potevan fornire tutte le risposte di cui avevo bisogno. Superando i confini di quel passato andai in cerca degli eventi e delle creature che lo avevano preceduto, e fu come scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito. E il viaggio all’indietro perse ogni freno.

    Un viaggio difficile in quanto era troppo tardi per interrogare chi non avevo mai interrogato. Non c’era più nessuno. Restava solo una zia novantaquattrenne che alla preghiera dimmi-zia-dimmi mosse appena le pupille annebbiate e mormorò: «Sei il postino?». Con la zia ormai inutile, il rimpianto d’una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli aveva custodito la testimonianza di cinque generazioni: antichi libri tra cui un abbaco e un abbecedario del Settecento, rarissimi fogli tra cui la lettera d’un prozio arruolato da Napoleone e sacrificato in Russia, preziosi cimeli tra cui una federa gloriosamente macchiata da una frase indimenticabile, un paio d’occhiali e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei. Cose che ero riuscita a vedere prima che finissero in cenere, una terribile notte del 1944. Con la cassapanca perduta, qualche oggetto salvato per caso: un liuto privo di corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi emessa dallo Stato Pontificio, un vetusto orologio che stava nella mia casa di campagna e che ogni quarto d’ora suonava i rintocchi della campana di Westminster. Infine, due voci. La voce di mio padre e la voce di mia madre che narravano le storie dei rispettivi antenati. Divertita ed ironica quella di lui, sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia. Ed entrambe talmente remote nella memoria che la loro consistenza appariva più tenue d’una ragnatela. A evocarle di continuo, però, e a connetterle col rimpianto della cassapanca o coi pochi oggetti salvati, la ragnatela si irrobustì. Si infittì, si fece un solido tessuto, e le storie crebbero con tanto vigore che a un certo punto mi divenne impossibile stabilire se appartenessero ancora alle due voci oppure se si fossero trasformate in un frutto della mia fantasia. Era esistita davvero la leggendaria arcavola senese che aveva avuto il coraggio di aggredire Napoleone, era esistita davvero la misteriosa arcavola spagnola che s’era sposata esibendo un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta sulla parrucca? Era esistito davvero il dolce arcavolo contadino che spingeva il fervore religioso fino a flagellarsi, era esistito davvero il rude arcavolo marinaio che apriva bocca solo per bestemmiare? Erano esistiti davvero i bisnonni maledetti cioè la repubblicana Anastasìa il cui nome portavo come secondo nome e l’aristocraticissimo signore di Torino il cui nome, troppo illustre e troppo potente, non si doveva nemmen pronunciare per ordine della nonna? E l’avevano davvero abbandonata in un ospizio di orfanelli questa povera nonna concepita dalla loro furibonda passione? Non lo sapevo più. Ma nel medesimo tempo sapevo che quei personaggi non potevano essere un frutto della mia fantasia perché li sentivo dentro di me, condensati nel mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituivano il mio Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e spavaldi. Le particelle d’un seme non sono forse identiche alle particelle del seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione, perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d’un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d’una miriade di genitori?

    Esplose allora un’altra ricerca: quella delle date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare un lavoro incompiuto. E come una formica impazzita dalla fretta di accumular cibo corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati delle Anime. I registri nei quali, col pretesto di individuare i fedeli tenuti al precetto pasquale, il parroco elencava gli abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppandoli in nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli. L’anno o la data completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo di lavoro e il reddito, il patrimonio o l’indigenza, il grado di educazione o l’analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma. Scritti a volte in latino e a volte in italiano, con la penna d’oca e l’inchiostro marrone. L’inchiostro, asciugato con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al contrario s’era incollata alle parole rendendole sfolgoranti, così a raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che era un bruscolo di verità. E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri eran stati divorati dai topi o distrutti dall’incuria o mutilati dai barbari che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti. Quelli delle storie narrate dalle due voci c’erano, e li trovai dal primo all’ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. Sì, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me.

    La saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, incomincia oltre due secoli fa: negli anni che preparano la Rivoluzione Francese e che precedono la Rivoluzione Americana cioè la guerra d’Indipendenza scatenata contro l’Inghilterra dalle tredici colonie sorte nel Nuovo Mondo tra il 1607 e il 1733. Parte da Panzano, un paesino di fronte alla casa in cui intendo morire e che prima della ricerca condotta dalla formica impazzita guardavo senza sapere quanto vi appartenessi, e avviandone il racconto mi pare giusto offrire qualche notizia a chi non conosce quel tempo o quel luogo. Panzano sta su un poggio del Chianti, a mezza strada tra Siena e Firenze, e il Chianti è la zona della Toscana che si stende tra il fiume Greve e il fiume Pesa: trecento chilometri quadri composti da montagne e colline di rara bellezza. Le montagne sono coperte di piante ed alberi sempre verdi, castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali, nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro, e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed immobili ondate. Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato. Due secoli fa Panzano contava duecentocinquanta abitanti tra cui lo speziale, il vetturale, il procaccia, il sensale di matrimoni, il cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire, ed eccetto quei cinque erano tutti contadini. Mezzadri o pigionali che lavoravano i latifondi del granduca o dei signori o degli enti ecclesiastici e il cui sogno era possedere un livello. Vale a dire, prendere in enfiteusi un podere e scrollarsi di dosso il padrone. Di solito, un despota al quale apparteneva ogni istante della loro giornata e senza il cui permesso non potevano nemmeno sparare a un fagiano o prendere moglie. La loro anima, invece, apparteneva al prete. E di preti a Panzano ve n’erano due: il vecchio don Antonio Fabbri e il giovane don Pietro Luzzi. Il primo, nella prioria di Santa Maria Assunta in Cielo: al centro del paese. Il secondo, nella Pieve di San Leolino: lungo la strada per Siena. V’era inoltre un grosso via-vai di frati in cerca di adepti da controllare o da aggregare al rigorosissimo Ordine dei Terziari Francescani, e ovunque trovavi oratori o cappelle o santuari o tabernacoli dove si svolgevano noiose processioni che insieme alla Messa e al Vespro costituivano il massimo svago d’un contadino. Insomma, nonostante la fede nel raziocinio e nel progresso che veniva predicata dall’Illuminismo, nonostante gli ideali di libertà e di uguaglianza che stavano prendendo corpo, nonostante i principii irreligiosi e i costumi epicurei che caratterizzavano l’epoca, in cima a quel poggio del Chianti la religione dominava spietata e la Chiesa imperava: somma regina e principale tiranna. La città era lontana, sebbene fosse geograficamente vicina. I ricchi vi si recavano col cavallo o con la carrozza, i meno ricchi col calesse del vetturale, i quasi poveri con il barroccio, e i poveri a piedi. Così i più morivano senza aver mai visto Firenze che da Panzano distava appena venti miglia, o Siena che ne distava appena diciannove.

    Le strade eran strette e sconnesse, un acquazzone bastava a renderle impraticabili, e d’inverno succedeva spesso di restare isolati per settimane o per mesi. Le case, no: erano quasi sempre belle perché nelle regie fattorie il granduca aveva ordinato di ricostruirle su modelli architettonici pieni di grazia. Bei porticati, bei torrini e bei forni per cuocervi il pane. Ma contenevano le stalle, i porcili, gli ovili, i pollai da cui veniva un gran puzzo e come quelle di città non avevano acqua. L’acqua si prendeva alla sorgente, trasportandola a braccia coi secchi, e si serbava nei fiaschi o nelle brocche di rame dette mezzine. Infatti ci si lavava pochissimo, diciamo una volta al mese o una volta all’anno, e la latrina era un lusso costituito da un recipiente o da un buco chiuso da un coperchio. Il cariello. Era un lusso anche illuminare le stanze. Le lampade a olio costavano care e al calar del buio si accendeva una candela o si andava a letto. Altrettanto presto ci si svegliava. D’estate, alle quattro del mattino: per correr subito a lavorare nei campi. Si lavorava molto, a Panzano. In media, quindici ore al giorno. E, a parte lo svago delle Messe o dei Vespri o delle processioni, l’unica ricompensa erano le veglie. Cioè i raduni serali che la domenica si tenevano in una stalla o in cucina per raccontarsi le novelle popolate di streghe e di diavoli, di fate e di fantasmi. L’unico divertimento mondano, il mercato settimanale o la fiera stagionale di Greve e di Radda: i due paesi attigui. L’unico vero conforto, l’amore consentito dalla Chiesa cioè l’amore coniugale. (Il che non impediva frementi amplessi nei pagliai e scomode gravidanze da riscattare col matrimonio). Cos’altro? Bè, i figli davano del voi ai genitori, in segno di rispetto. Anche fra marito e moglie ci si dava del voi, in segno di riguardo, e le donne contavano poco. Non avevano diritto all’eredità, per sposarsi dovevano possedere una dote e un corredo, in mancanza di ciò finivano spesso in convento, e sfacchinavano di zappa o di vanga proprio come gli uomini. Gli ospedali in campagna non esistevano. Sebbene a Radda ci fosse un medico condotto, a Panzano bisognava accontentarsi del cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire. Quindi una ferita o una bronchite bastavano a spedirti nell’al di là. Non esistevano nemmeno i cimiteri. I morti si seppellivano sotto l’impiantito della Pieve di San Leolino o della prioria di Santa Maria Assunta in Cielo, con un po’ di calce e via. Tantomeno esistevan le scuole. Solo se il prete ti insegnava, imparavi a leggere un libro, compilare una lettera, far di conto. Ma don Fabbri non ne aveva voglia, don Luzzi lo faceva esclusivamente nei casi eccezionali, e tra i contadini della zona la percentuale dell’analfabetismo toccava l’ottantasette per cento. Eppure quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena era giudicato da chiunque un angolo benedetto da Dio, il Chianti era una delle contrade più ammirate e più invidiate d’Europa, e la sua fama giungeva fino alla Virginia: la prima delle tredici colonie che stavano per ribellarsi all’Inghilterra. Questo spiega perché la saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, includa all’inizio tre personaggi ai quali non mi lega alcuna parentela e che tuttavia furono coinvolti nel mio venire al mondo. Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza Americana e terzo presidente degli Stati Uniti che in Virginia viveva e possedeva molte terre cui si dedicava con l’entusiasmo di un agronomo. Benjamin Franklin, il geniale scienziato e scrittore e politico della colonia chiamata Pennsylvania che fra le altre cose inventò il parafulmine e la stufa a combustione. E il fiorentino Filippo Mazzei: medico, commerciante, memorialista, esperto di agricoltura, avventuriero di classe nonché amico di quei due. Coinvolgimento che induce a riflettere sulla comicità del destino e sull’inopportunità di prenderlo troppo sul serio.



    [Modificato da misterx78 16/09/2008 18:53]
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    Lucio_2303
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    00 16/09/2008 18:55
    Re:
    Agny81, 16/09/2008 18.12:

    wooooow!!!!!

    l'hai scritta tu??? complimenti!!
    non ho parole davvero... [SM=x1460496]
    oriana è morta e ormai nessuno se nè ricorda più...
    se solo ripenso a quell'oca della guzzanti quando prendeva in giro il suo tumore....cose dell'altro mondo [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458] [SM=x1460458]




    non vorrai mica paragonare lo stile e la classe di una con la ignobile ironia di quell'altra..tra le due persone in questione cè un abisso..
    Anche se io non sono sempre d'accordo con la Fallaci..nel senso che secondo me lei ha fatto male a esporsi cosi tanto contro l'Islam..cosa ci ha guadagnato? insulti e sputi in faccia da ogni parte del mondo..soprattutto quello islamico e quello buonista della sinistra occidentale..cosi è morta lasciando solo un buon ricordo a chi l'amava..ma non a chi non la sopportava..secondo me persone illuminate come lei dovrebbero cercare di mettere d'accordo tutti..hanno le qualità per farlo..
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  • misterx78
    00 16/09/2008 19:11
    E' interessante quello che dici Lucio... mi riferisco al fatto che le persone illuminate(quindi ne hai compreso il valore della Fallaci) dovrebbero cercare di mettere d'accordo tutti visto che hanno le qualità per farlo.

    Il punto è: come?
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    Lucio_2303
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    00 16/09/2008 19:39
    Re:
    misterx78, 16/09/2008 19.11:

    E' interessante quello che dici Lucio... mi riferisco al fatto che le persone illuminate(quindi ne hai compreso il valore della Fallaci) dovrebbero cercare di mettere d'accordo tutti visto che hanno le qualità per farlo.

    Il punto è: come?




    appunto..sarebbe piu' facile per un ignorante spiegare un concetto a tanti illuminati che non il contrario a volte..
    Comunque lei è una donna coraggiosa..che ha preso in mano una situazione difficilissima contro tutto e tutti..un argomento da prendere con le giuste cautele visto il mondo in cui viviamo adesso..altro che certe donne di spettacolo che sanno solo andare in televisione al riparo da ogni pericolo a sputare sentenze e baggianate contro chi invece cerca di far sapere il suo punto di vista..gente come la Guzzanti non sono una risorsa per questa società..sono solo persone che cercano notorietà ma dentro sono di un ignoranza mostruosa..
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    Lucio_2303
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    00 16/09/2008 19:47
    Talmente difficile mettere tutti d'accordo che a volte mi chiedo perchè al mondo ci sono persone che impegnano tutta la loro vita per riuscire in questo intento..o almeno sensibilizzarne la maggior parte..riuscirci o meno quello dipende da chi compra e legge i libri..perchè appunto puoi prendere il suo (della Fallaci) leggerlo tutto e pensare che sei d'accordo oppure no..l'importante credo che sia rendere partecipi i lettori..arrivare almeno al traguardo di farlo leggere..poi uno puo' essere d'accordo o meno...

    Io faccio sempre questo esempio..a casa ho due libri..uno si chiama "il libro nero del comunismo" l'altro "il libro nero del fascismo" li ho letti tutti e due dimenticandomeli ovviamente..(due mattoni) ..però mi chiedevo appunto..quanti possono dire di avere questi due libri? intendo proprio tutti e due..perchè di solito al massimo ne trovi solo uno..

    Grande Fallaci! a Natale ho regalato il libro sulla sua vita a mio fratello..ancora non me lo ha passato..conoscendolo l'avrà letto almeno 30 volte per questo non me lo ha mai prestato..
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  • misterx78
    00 16/09/2008 19:49
    Lucio_2303, 16/09/2008 19.39:


    ..gente come la Guzzanti non sono una risorsa per questa società..sono solo persone che cercano notorietà ma dentro sono di un ignoranza mostruosa..



    Anche fuori...


    Non nascondo che spesso mi sono trovato ad avere anch'io tanto coraggio contro tutto e tutti nella mia vita.

    Ecco perché la capisco. E capisco quando dice che sì è dura con quelli intorno ma ancora di più con sè stessa. Io per primo credo in certi principi e me li auto impongo.

    Come faceva lei.



    Lucio_2303, 16/09/2008 19.47:


    Io faccio sempre questo esempio..a casa ho due libri..uno si chiama "il libro nero del comunismo" l'altro "il libro nero del fascismo" li ho letti tutti e due dimenticandomeli ovviamente..(due mattoni) ..però mi chiedevo appunto..quanti possono dire di avere questi due libri? intendo proprio tutti e due..perchè di solito al massimo ne trovi solo uno..





    Io leggo libri anche antitetici come nell'esempio che hai postato.

    Io credo che non bisogna rinunciare a gridare al mondo quello che si ha dentro perché tanto è inutile. Ci sarà sempre qualcuno che recepirà il messaggio e chi no. Ma non per questo bisogna lasciare andare...

    In questo momento c'è un medico che salva un uomo. In questo momento c'è un assassino che uccide un uomo. Se ci fermiamo lo svantaggio è evidente.
    [Modificato da misterx78 16/09/2008 19:53]